“Spatriati”: Mario Desiati

Il libro di Mario Desiati, vincitore dell’ultimo premio Strega, non è solo un inno alla “pugliesità”, ma appare soprattutto il manifesto di un’intera generazione, quella dei quasi quarantenni nati negli anni ottanta, gli anni della speranza dove tutto sembrava possibile.

Alla generazione “easy yet” appartengono i due protagonisti Francesco e Claudia, naviganti a vista nei territori incerti d’Europa in cerca delle proprie identità professionali e sessuali non allineate e “in direzione ostinata e contraria” rispetto a quelle precostituite presenti nella realtà forse ancora troppo provinciale e retrograda dalla quale provengono, la Puglia, terra natia di tradizioni e riti.

Il titolo del romanzo richiama proprio questo bisogno quasi fisiologico di peregrinare ed infatti “Spatriati” letteralmente sta per andar via, sebbene in molti dialetti meridionali, tra i quali quello di Martina Franca città di origine dei due ragazzi, tale termine può assumere diverse sfumature di significato tra le quali quelle di incerto, disorientato, ramingo, senza né arte né parte. Più in generale, secondo Desiati, lo spatriato è colui che è fuori da un’idea comune, da una convenzione e spesso oltrepassare il confine dell’ordinarietà richiede un gesto simbolico, un rito segno di una frontiera varcata, funzionale a realizzare il passaggio da uno stato ad un altro. In “Spatriati” , di riti e di passaggi se ne possono incontrare tanti, dall’amore platonico e devoto di Francesco nei confronti di Claudia nella cornice incontaminata dei paesaggi martinesi e dei suoi cieli “dai quali non si può andar via senza graffi”, alla fluidità amorosa dei club berlinesi, al consumismo affettivo sempre alla ricerca quasi spasmodica di nuovi e coinvolgenti stimoli talvolta anche solo accennati.

Quella di Francesco e Claudia è una libertà incerta e sofferta sino alla fine, degna di uno spatriato, sempre in bilico tra il concetto di “radici” e quello di “origine”, ma mentre Claudia è pienamente convinta che le radici ad un certo punto devono essere recise, perché trattengono e non permettono di essere liberi, nonostante la consapevolezza della propria origine, carattere che si porta sempre appresso ma senza lacci  né catene, Francesco non è sicuro di essere in grado di levare le àncore alla conquista di nuovi porti, giacché sente le sue radici ben piantate nella sua terra, come l’albero di limone della casa di Claudia.

Il ritratto che ne viene fuori è quello di una generazione di mezzo, alla continua ricerca della propria identità e del proprio posto nel mondo, cresciuta in bilico tra speranze di rinascita e decadenza economica e sociale, un’immagine dalla quale, nell’ultimo capoverso del libro, Francesco e Claudia hanno l’illusione di esserne salvi, mentre cantano canzoni e recitano versi di vecchie poesie fuori dal tempo.

“Guardiamo al bosco, ai lati della strada e ai piedi dei muri a secco ciuffi di ciclamini decorano di rosa la nostra cortina. Fuori dalla loro stagione, li possiamo vedere e commentare solo noi, ma questo è uno dei nostri segreti. Cantiamo canzoni e recitiamo versi più vecchi di noi, siamo fuori dal tempo e abbiamo l’illusione di essere salvi “.